Narcéte

Liner notes 

by Gennaro Fucile

 

The quartet we are about to hear presents us with the most unusual of outfits – unusual not so much in

its aim to link poetry with jazz music (or vice-versa, if you wish), hardly anything new, as for the

peculiar path it takes in reaching such goal: namely, a gradual and thoughtful testing process of the

project through different «live» situations. Give credit for it to the friendship and mutual regard among

the artists. Haslam and Waterman go back a long time, same as Pastor and Dagnino; plus, this was not 

the first time Haslam and Pastor, Dagnino and Haslam have worked together. Credit is also due to a

shared interest in «music and poetry», following a tradition of long standing in both Italy and Great

Britain.

 

Right from the start, this record gives a whiff of concept album, a format which harks back to the

Sixties/Seventies and records such as Tommy, The Who’s «rock opera». Indeed, what we have here is a

collection of Erika Dagnino’s poems, read by the poet herself. The spoken word acts as a narrative

thread for the musicians, who are called up to ornate and introduce the text, and at the same time to

dissimulate, conceal and contradict it, all to the purpose of creating a single lyrical flow.

 

Upon a first listening, the record may sound like a further episode in the long but sporadic relationship

between poetry and music, jazz in particular; what with being there a text, a poet and a group of

musicians who, for all their contemporary eclecticism, come from genuine jazz stock. To put it

differently, this is an instance of «Jazz & Poetry», that source of joy and torment for both poetry- and

jazz-lovers, means of expression which, like a comet, runs an orbit of its own, spinning now and again

around planet jazz. Sometimes the distance between the two bodies can be quite sizable: just think of

Ken Nordine’s word jazz; at other times, the two orbits brush, as it was the case with the Beatniks in the

Fifties (e.g., with jack Kerouac’s bop prosody) or with the «black pride» still worded today by Amiri

Baraka.

 

Things are not exactly what they look like, though. Erika Dagnino’s text has a life and a music of its

own; likewise, the music woven by Haslam, Pastor and Waterman has no need of anything more: it

springs out, it comes and goes, now feverish, now quiet, dancing to the rhythm of the blues.

 

None of the two elements here finds itself subjected to the other, and this is the key to this work, a

happy junction of different voices where instrumental improvisations and words stand respectful of each

other.

Each of the four artists contributed evenly to the final outcome; in a careful succession of sounds,

words and silence.

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È un quartetto insolito quello composto da Erika Dagnino, George Haslam, Stefano Pastor e Steve Waterman. 

Insolito non tanto perché ri-aggancia la poesia alla musica, jazz in particolare (o viceversa, questione di punti di vista), 

come già a più riprese è accaduto in passato, quanto per il percorso, graduale, meditato, che ha prodotto questa scelta.

Un cammino che hanno intrapreso verificando sul campo, in concerto, in una dimensione fisica la tenuta del progetto.

Merito dell’amicizia e della stima reciproca che li lega. 

Haslam e Waterman, infatti, si conoscono da tempo e anche quello tra Pastor e Dagnino è un sodalizio artistico

nato anni fa; inoltre Haslam e Pastor si sono incrociati a più riprese e in seguito anche Dagnino e Haslam hanno

avuto modo di lavorare insieme. Merito anche delle passioni comuni, la musica e la poesia, appunto;

e non deve meravigliare che ciò si riscontri in un quartetto anglo-italiano, perché al di qua dell’Atlantico 

si tratta dei paesi dove l’attrazione reciproca tra jazz e poesia trova e non da oggi terreno fertile.

Venendo al disco, ebbene, a prima vista, potrebbe definirsi un concept album, un modello che ha vissuto il suo momento

di maggior gloria a cavallo fra i Sixties e i Seventies, merito (o colpa?) di dischi rock celeberrimi, uno su tutti: Tommy 

l’opera firmata dai Who. 

In effetti, qui abbiamo una raccolta di versi di Erika Dagnino, integralmente enunciata, declamata,

affermata dall’autrice stessa. Un filo conduttore, che vale come una trama narrativa, anche se non propone alcuno sviluppo

in tal senso, mentre  ai tre musicisti spetta il compito di avvolgere, introdurre, ma anche eludere, celare e contraddire il testo, 

al fine di ottenere un solo racconto lirico.

Sempre a prima vista questo potrebbe dirsi un nuovo episodio della lunga, come si è detto, ma non fitta relazione

tra poesia e musica, in particolare con il jazz in tutte le sue varie evoluzioni vissute nel corso del tempo. 

Lo prova la presenza di un testo poetico, di un’autrice di poesie in persona e dei musicisti che sono autentici jazzisti, 

per quanto ecclettici come si impone a un musicista oggi.

In altre parole, si direbbe che siamo di fronte a un lavorodi Jazz & Poetry, croce e delizia per gli amanti

della musica e della poesia. 

Una forma espressiva che come una stella cometa segue una propria orbita ruotando a più riprese intorno al pianeta jazz.

A volte si tiene a una certa distanza, come nel caso del word jazz di Ken Nordine, altre volte sfiora quasi la superficie,

come è accaduto al tempo dei beatnik (basterà ricordare la spontaneous bop prosody di Jack Kerouac), o dell’orgoglio

nero che tuttora parla per bocca di Amiri Baraka.

Dunque, a prima vista, siamo di fronte a un poetico concept album, ma le cose non stanno proprio così.

Il testo di Erika Dagnino ha vita propria, in teoria (e in pratica) non ha bisogno di altro che della propria musicalità per esistere.

Anche le trame sonore tessute da Haslam, Pastor e Waterman non necessitano d’altro, germogliano d’improvviso, 

in un continuo riprendersi e lasciarsi, a ritmo di danza e di blues, tra atmosfere febbricitanti e pacate.

Non esiste sudditanza della musica alle parole e tantomeno il contrario. È qui la chiave di questo lavoro: nella felice

congiunzione di voci differenti, nella misurata proporzione tra gli interventi, ottenuta evitando dosaggi eccessivi nelle

improvvisazioni e nelle incursioni della parola. Risultato che si deve in egual misura a ognuno dei quattro, in un’alternanza 

sapiente di suoni, parole e silenzi.